mercoledì 28 ottobre 2015

Le Maschere Di Clara - Lynch (2015)

I veronesi Le Maschere Di Clara pubblicano un nuovo ep che fa seguito al valido L'alveare del 2013, spingendo quell'ardita ma altrettanto suggestiva commistione di musica classica, math rock e noise rock, verso nuovi lidi. La formazione della band è del tutto particolare e comprende Lorenzo Masotto al basso, pianoforte e voce, la sorella Laura Masotto al violino e Bruce Turri alla batteria. La loro musica è magniloquente e si muove accostando universi apparentemente distanti e inconciliabili. Il violino, ora distorto, ora dimesso, duetta con una poderosa sezione ritmica che omaggia apertamente gli anni novanta (Don Caballero, Shellac e Uzeda), mentre non mancano citazioni e riferimenti alla musica classica, insieme ad interessanti spunti dal sapore progressivo. I testi richiamano spesso il mondo della letteratura e della poesia (ne è un esempio L'alveare, le cui tracce sono ognuna un omaggio a un diverso poeta o scrittore italiano), mentre la voce spazia dal reading al cantato. Chissà, forse è proprio questa tendenza ad essere così trasversale, spesso fino all'eccesso e, potremmo dire, così barocco nei suoi intenti, che non ha ancora permesso al sound della band di ottenere una più ampia visibilità, ma questo non significa che la proposta manchi di efficacia.
Con questo ep i nostri abbandonando il cantato per concentrarsi sulla parte strettamente musicale, realizzando quattro traccie strumentali. L'ep anticipa e richiama con il suo titolo l'imminente nuovo album che si intitolerà The Elephant Man (anch'esso strumentale) e che verrà realizzato grazie ad una campagna di crowdfunding. Dunque sembra che, nel omaggiare il film di David Lynch che ha trasposto sul grande schermo la storia di Joseph Merrick, Le Maschere Di Clara vogliano arricchire il loro campionario con nuove suggestioni cinematiche.
Con le prime tre tracce (Freak, Istanbul e Pow Wow) la band punta tutto sulla potenza e si spinge attraverso vorticosi intrecci e ritmiche squadrate dalla grande precisione chirurgica. Una solida batteria e un martellante basso distorto sorreggono i fraseggi impazziti di un violino lancinante, mentre fugaci intermezzi pianistici fanno il loro ingresso per spezzare la tensione e preparare la strada a nuove frenetiche cavalcate.
Solar, il lungo brano conclusivo, è quello che più di tutti contribuisce ad alimentare la curiosità per l'imminente nuovo progetto. Dapprima fanno capolino le suggestive e fragili note di un pianoforte e di seguito si inseriscono il basso e la batteria che, serrando i ranghi, sostengono un violino che, con il suo spasmodico incedere, diventa il vero protagonista della canzone. L'andamento frammentato e spigoloso subisce poi una battuta d'arresto e la sezione ritmica cede il campo a campionamenti elettronici che fanno da tappeto a un crescendo finale pregno dell'intensità drammatica di una struggente colonna sonora.
Dopo un fugace antipasto non resta che attendere la più sostanziosa portata principale, sperando che gli interessanti spunti offerti da questo ep possano trovare una più completa espressione nel più esaustivo formato che solo un full length può offrire.

domenica 11 ottobre 2015

Italian Occult Psychedelia

Squadra Omega – Il Serpente Nel Cielo (2015). Tre pubblicazioni in un anno sono un buon modo di rompere un silenzio discografico durato quattro anni. Tanto è il tempo passato da Le Nozze Chimiche, l'ultimo 10 pollici firmato Squadra Omega. Questo Il Serpente Nel Cielo, pubblicato a febbraio, è il primo dei tre album che sono usciti quest'anno: il secondo è Lost Coast (a M.A. Littler Film), pubblicato a marzo in versione LP, mentre il terzo è Altri Occhi Ci Guardano, disponibile sia in versione CD che LP.
Si parte con i 15 minuti di Il Serpente Nel Cielo, la prima delle due traccie che compongono il disco, costruita su droni che sembrano provenire dai più remoti anfratti dello spazio siderale, sui quali si innestano dapprima le fredde note di uno xilofono, interrotte poi da un sax che si insinua a poco a poco fino a lanciarsi, insieme a brillanti contrappunti di batteria, in una serie di svisate Free-Jazz che si distendono infine in un magnetico tribalismo ancestrale. Dal caos primordiale si genera il cosmo, dal disordine scaturisce l'ordine e si plasma l'universo, e in esso la via lattea, quel gigantesco serpente di luce nel cielo, l'Uroboro che, simboleggiando l'eterno ritorno e il ciclo infinito di nascita e morte, regola il nostro divenire. Il Creatore Della Forma, nella sua apparente immobilità e nel suo incedere lento, racchiude in se l'impercettibile ma costante trasformazione che le cose, sottoposte alle immutabili leggi dell'universo, subiscono inesorabilmente. L'esistenza, in quanto emancipazione dal caos, è forma e razionalità.



Mamuthones/Evil Blizzard – Collisions 04 (2015). Collisions 04 è il quarto capitolo di una serie di split album pubblicati dall'etichetta inglese Rocket Recordings che mette di volta in volta due diverse band a confronto. Questa volta si fronteggiano gli italiani Mamuthones di Alessio Gastaldello (ex Jennifer Gentle), che realizzano le prime quattro tracce dell'album, e gli inglesi Evil Blizzard, che contribuiscono invece con due brani.
I Mamuthones costruiscono le loro composizioni su solidi groove di basso e batteria per poi infarcirli di fantasiose sferzate chitarristiche, di campionamenti vocali e di loop elettronici degni della colonna sonora di un film di fantascienza. La sezione ritmica predilige la reiterazione e, passando attraverso il Funky di I've Gotta Be e di Holy Ghost People o la compattezza di Don't Be Choosy e Fire On Fire, contribuisce a creare un'atmosfera ipnotica e visionaria, mentre la voce e le chitarre tessono le trame di una bizzarra e trascinante danza mistica.
Gli Evil Blizzard al contrario realizzano due brani dal respiro più ampio, partendo da una prospettiva diametralmente opposta. Le atmosfere sono molto più dilatate, mentre i toni si fanno decisamente più cupi. La prima traccia, Sacrifice, è una lenta omelia in chiave Psych Rock sorretta da un riff ossessivo che accompagna gli occulti versi di un rituale pagano. Le chitarre guidano questo sabba nero dividendosi tra eterei fraseggi Space Rock e sulfurei miasmi di distorsioni, fuzz e wah-wah, mentre la voce si lancia in un oscuro mantra dal fascino arcano. La seconda traccia è invece una versione remix di Sacrifice, dove il riff centrale è affidato alle gelide note di un pianoforte e le chitarre vengono sostituite da suoni sintetici e campionamenti elettronici.


Mai Mai Mai – Πέτρα (2015). Toni Cutrone (Trouble Vs. Glue, Hiroshima Rocks Around) è la mente dietro questo progetto denominato Mai Mai Mai, ed è lui a dare vita, attraverso i suoi synth, i suoi sequencer e i suoi samples, ad un interessante viaggio elettronico all'interno di paesaggi sonori fatti di rumori sintetici e beat oscuri. Questo disco, Petra (2015), è il secondo capitolo di una trilogia dedicata al mediterraneo che è iniziata con Delta nel 2014 e che vedrà la conclusione l'anno prossimo con Phi.
La scelta della lingua greca, non solo per il titolo del disco ma anche per le tre tracce che lo compongono, non è casuale e richiama la forte esigenza di riscoprire le profonde radici che ci legano indissolubilmente a quel Mare Nostrum, come lo chiamavano i Latini, che è all'origine della nostra civiltà. Ed è sulla pietra che questa nostra civiltà è stata scolpita: sulla pietra dei palazzi, dei templi e dei monumenti; Su quella pietra che ostinatamente si oppone all'inesorabile scorrere del tempo che tutto cancella; Su quella solida pietra che per secoli ha sostenuto e testimoniato le nostre imprese.
Ed ecco tratteggiati gli elementi che stanno alla base della cultura mediterranea: l'acqua, rappresentata dal mare, e la terra, rappresentata dalla pietra. E questi sono appunto gli elementi che sorreggono tutta l'opera. Βάσσαι (Bassae), la traccia iniziale, è un martello pneumatico che scava la roccia come le impetuose onde dell'oceano che si infrangono inesorabilmente sugli scogli, e lo fa con pulsazioni profonde e con stridenti clamori industriali. Si delinea così un soundscape teso e nervoso che, vorticando impetuosamente, precipita in una spirale di tensione crescente. Πέτρα (Petra) è ricca di agghiaccianti rumori di fondo e, con il suo sferragliare, si trascina lentamente come un nocchiero che solca le acque più insidiose. La conclusione è invece affidata a Πέλαγος (Pelagos), un ossessivo pulsare di basse frequenze che accompagna le impetuose onde del mare.
 

lunedì 28 settembre 2015

Bachi Da Pietra - Necroide (2015)


Tornano i Bachi Da Pietra. Il duo infatti ha appena pubblicato il suo sesto album in studio, Necroide, che compie un ulteriore passo avanti verso quei territori estremi che il suo predecessore, Quintale del 2013, lasciava intravedere. Ma se prima i nostri si muovevano sulla rotta di uno stoner/blues acido e graffiante, ora a farla da padrone è l'Heavy Metal, in tutte le sue manifestazioni, soprattutto quelle più sanguigne e veraci. La scelta è indubbiamente funzionale a quelli che rimangono i punti forti della band, ovvero quel gusto noir e quell'ironia beffarda che si potevano apprezzare nei solchi del precedente album. Ma se la band non è del tutto estranea a un certo umorismo, qui lo humor si fa parodia e la parodia diventa il pretesto per rendere omaggio ad un intero genere, l'Heavy Metal appunto, che viene messo alla mercé dell'ascoltatore e sviscerato in tutti i suoi cliché, sia stilistici che contenutistici. 
Il sound è quindi volutamente stereotipato, come le macchiette di uno squallido teatrino di strada, mentre la verve vocale resta quella di sempre con l'aggiunta, per l'occasione, di qualche suono gutturale in più. Si parte con gli oscuri e veloci riff di Black Metal Il Mio Folk che, con il suo proclama, sembra fare il verso agli “inni di battaglia” di certe band scandinave (“Ora è la tua terra quella che si strazia, ora è la tua casa quella che si devasta […] Black Metal il mio folk, combatti nel nome del Rock 'n' Roll”). Si prosegue poi con il mid-tempo di Slayer & The Family Stone e con il riff pseudo-Thrash di Fascite Necroide che riporta alla mente i Venom (“Fascite Necroide, ha un nome perfetto e beffardo la morte”), per passare attraverso l'Hard Rock di Tarli Mai, la cavalcata eighties di Voodooviking e il pacchiano growl di Feccia Rozza, per giungere a Cofani Funebri (“Fernando ha un calendario nella sua strana officina, dice che ha più carne buona appesa lui del macellaio”), un tributo al Doom Metal più funereo e sepolcrale. Il gelido folk di Sepolta Viva e l'Hardcore violento di Danza Macabra, con la loro cupa ventata necrofila, concludono il disco.
Risulta difficile dunque non vedere questo disco come una semplice trovata goliardica o un divertente e bizzarro omaggio ad un genere musicale, seppur impreziosito da quella sagacia che è tipica dei Bachi Da Pietra. Ed è ancor più difficile non rimpiangere le interessanti evoluzioni che Quintale ci aveva prospettato, oltre che la sua originalità. Come si fa poi a non sentire la mancanza di quel blues scarno e minimalista che ha contraddistinto le produzioni precedenti. Ma, conoscendo i Bachi Da Pietra, è verosimile pensare che questa sia solo una fase transitoria o una fugace tappa di un percorso evolutivo che potrebbe sorprenderci nuovamente in futuro.

lunedì 21 settembre 2015

Retromania III: Downset - Do We Speak A Dead Language? (1996)


Quando nel 1994 i Downset pubblicarono il loro omonimo esordio avevo 14 anni ed ero un metallaro sfegatato. AC/DC, Iron Maiden, Judas Priest, Megadeth, Metallica, Pantera e Death erano il mio pane quotidiano e, da devoto adoratore del verbo Heavy Metal qual ero, difficilmente mi discostavo da quel tipo di estetica. Ricordo però che tra i miei amici non c'erano solo metallari come me, ma anche rappers, e ricordo anche quanto fosse difficile per degli adolescenti che facevano della musica, soprattutto di un particolare tipo di musica, la propria ragione di vita, convivere con qualcuno che professasse una diversa fede musicale. Ma in quel periodo iniziai a familiarizzare con altri tipi di linguaggio: con il Grunge per esempio, con l'Hardcore (avevo una copia di Recipe For Hate dei Bad Religion e di 100% dei Negazione, due dischi che adoravo), e con quella bizzarra contaminazione che tutti chiamavano Rap-Metal o Rap-Core (conoscevo i Body Count, i R.A.T.M. e a volte sul mio stereo girava Bring The Noise, nella grottesca versione che i Public Enemy incisero con gli Anthrax).
In particolare con quest'ultimo genere ebbi un rapporto di amore-odio. Mi ci avvicinai gradualmente e lo feci con i piedi di piombo. Da un lato faticavo ad accettare che l'Heavy Metal venisse contaminato da un genere al quale avevo dichiarato tutto il mio odio, dall'altro non riuscivo a raggiungere un compromesso con me stesso: "era la trovata del secolo o la più grande idiozia che l'uomo avesse mai sperimentato?". Ovviamente l'ago della bilancia era fortemente sbilanciato a favore della seconda opzione e furono ben pochi i gruppi che mi spinsero a dedicare un po' del mio tempo a questo genere. Tra questi gruppi ci furono sicuramente i Downset.
Li conobbi un anno dopo, nel 1995, quando io e i miei amici decidemmo di sotterrare l'ascia di guerra iniziando quel processo di conversione che ci vide tutti uniti (rappers e metallari) sotto la comune bandiera dell'allora imperante revival punk, e diventammo degli skaters. Incredibile quanto gli adolescenti sappiano essere al tempo stesso così intransigenti quando si tratta di difendere i propri "ideali", ma così volubili quando si tratta di sostituirli con altri più alla moda. E tutto con la più assoluta naturalezza. A comporre la colonna sonora delle nostre scorribande sullo skateboard ci pensarono i vari Offspring, NOFX e Pennywise, ma anche gruppi storici che si andavano via via riscoprendo (I Ramones per esempio) e ovviamente Anger, il singolo dei Downset estratto dal disco di esordio che spopolava in tutte le discoteche di rock alternativo.

Do We Speak A Dead Language?
uscì nel 1996, ma ne comprai una copia e la ascoltai in maniera approfondita solo qualche anno dopo. Avevo letto varie recensioni sul disco (soprattutto quella entusiasta di Rumore) e conoscevo la sua fama, ma l'impressione che ne ebbi fu al di sopra di ogni aspettativa. Rispetto all'esordio, che fondamentalmente aveva una canzone degna di nota (Anger appunto) mentre le restanti erano piatte fotocopie l'una dell'altra, avevo l'impressione che qui invece ogni brano fosse dotato di una personalità ben definita che lo distingueva dagli altri. E questa impressione cresceva ad ogni ascolto. E' uno dei pochi album del genere Rap-Metal o Rap-Core che sono riuscito ad apprezzare (e tutt'ora apprezzo) nella sua interezza, dalla prima all'ultima nota. I motivi sono svariati.
Nel disco c'erano ovviamente due delle mie più grandi passioni di allora e di sempre, il Metal (il primo amore non si scorda mai!) e l'Hardcore, che nel frattempo avevo avuto modo di approfondire (Spaziavo dai Bad Brains, ai Minor Threat fino ad arrivare ai Gorilla Biscuits e agli Yuoth Of Today), sapientemente fusi con l'irruenza verbale e la carica al vetriolo del Rap. Ma la combinazione di questi tre elementi avveniva in maniera del tutto fluida e naturale, niente a che vedere con i primi sbilenchi esperimenti di fusione tra Rock e Rap. Insomma era come se gli Slayer, i Black Flag e i Public Enemy si fossero fusi in un'unica band.
Se andiamo poi ad inserire il tutto all'interno del giusto contesto sociale, potremo avere un'idea ben precisa del significato di questo disco in particolare e della band in generale. Ancor più che in altri casi infatti, le coordinate geografiche sono importanti, anzi fondamentali, per comprendere le coordinate stilistiche del gruppo. Ci troviamo nella Los Angeles dei quartieri bassi e dei ghetti, segnati dalla criminalità, dalla rivalità tra bande e da profondi conflitti razziali.

"Graffin' up in L.A. you can't act stupid and play, striking up in the wrong hood could mean your last day. Most every set has a block and every block has a mad set. With sick evil fools who love to see blood-hit pavement." (Pocket Full Of Fatcaps).

E' proprio da questi elementi che i Downset, fortemente legati alle proprie radici, prendono spunto per i loro testi e la loro musica. Il sound è teso allo spasimo e spara raffiche di riffs roventi, mentre la voce di Rey Oropeza è una furia cieca scagliata contro i mali che affliggono la sua città.

Scaglaita contro i pregiudizi: "All are guilty of judgment and seeing what we only want to see, And the dangers of false pedestals is illusive self-moral supremacy, So quick to magnify the faults inside of one another, Then the flames of out own darkness can ignite and we become what we fear. Cast you judgment! Hurl a stone!" (Hurl A Stone);

Scagliata contro la disugualianza sociale: "They taken the food from the mouths of the ones that need to be the most fed! […] Poverty is the worst form of violence! I am not a lower form of human life!" (Sickness);

Scagliata contro l'insensata violenza che imperversa nelle strade: "So cheap a death but my brother so precious is life, speaking the language of fratracidal sights, You do like "Cain" did "Able" you love to watch your brother's blood." (Eyes Shut Tight).

I sintomi sono quelli di una società avviata verso l'estinzione, una società che non conosce più il significato della mediazione e della diplomazia come strumenti di risoluzione dei conflitti, ormai capace solo di reiterare gli stessi folli gesti di autodistruzione. La parola, da sempre strumento attraverso il quale si esprime la civiltà, viene dunque a perdere il suo potere comunicativo per essere relegata a mero ornamento. Ecco il significato della domanda che da il titolo al disco. Ma la soluzione non è la rassegnazione e l'invito è quello di alzare la testa e prendere coscienza delle proprie capacità:

"We must belive on our trust potential, Our life has the true meaning and value of now, Our only hope today lies in our ability to lift ourselves from this ever-rising hell! Take your life back! Give me life to live!" (Empower).

Proprio perchè profondamente ancorata al tessuto sociale che l'ha generata la critica sociale dei Downset è concreta, è frutto dell'osservazione diretta della realtà circostante che viene filtrata attraverso la sensibilità dell'individuo. Questo contribuisce a dare al messaggio che ne deriva una valenza oltre che esteriore anche e soprattutto interiore. E l'interiorità emerge in tutte le sue componenti: quella emotiva, quella morale e quella spirituale.

La componente emotiva è rappresentata dalla rabbia che scaturisce dal senso di impotenza di fronte alle contraddizioni della società: "Hate's piercing sound disfigures the soul in the stream of my tears. I lay in their mold." (Touch);

Ma la rabbia rischia di divoraci se non è guidata dal profondo senso morale che spinge l'uomo ad agire/reagire: "My spirit is already tired of the psychological cadence of poverty. Now I take my hands from my eyes and look at reality. And why do we accept subservient positions without question?" (Sangre De Mis Manos);

Piaccia o meno, nel disco trova espressione anche una certa dimensione spirituale che si esprime attraverso una profonda fede in Dio: "I will love God of Zion with all my heart and you will hate me for it! […] Your world is against the spirits! This day is against the spirits!" (Against The Spirits).

Questo disco rappresenta in definitiva il canto del cigno dei Downset, che non riusciranno più a raggiungere livelli così elevati. Un disco che, nonostante i suoi meriti , non è riuscito a portarli al successo ottenuto dai colossi del genere, i Rage Against The Machine. Il destino li volle inseguitori, destinati a vivere all'ombra di questa band e a subirne (ingiustamente) il confronto. Inutile dire che esistono profonde differenze tra le due band e ancora più inutile sarebbe elencarle, tanto ormai la storia è stata scritta. A causa di problemi discografici poi, dovettero aspettare 4 anni prima di pubblicare il seguito, Check Your People (2000) che, mostrando qualche timida apertura verso il Nu Metal, non seppe però lasciare un segno decisivo all'interno di un mercato ormai saturo e decisamente inflazionato. Alla luce di questo, risulta ancora più inutile la recente Reunion, ma questa è un'altra storia.

lunedì 14 settembre 2015

Dell'impero delle tenebre... più profonde

Il Teatro Degli Orrori è tornato. Da qualche giorno infatti circola in rete Lavorare Stanca, il nuovo brano che anticipa l'uscita del nuovo disco (il quarto per la precisione), prevista questo autunno.
Il pezzo sembra voler fare tabula rasa di quanto sentito fin'ora, riportando tutto all'anno zero di Dell'Impero Delle Tenebre, il loro disco d'esordio, dopo la deriva vagamente ruffiana (e forse un po' paracula?) di Il Mondo Nuovo del 2012. Peccato che questo brano non sia assolutamente in grado di reggere il confronto.
Quello che ho apprezzato nell'esordio dei nostri era quella meticolosa ricerca linguistica che si percepiva in ogni suo brano, quell'uso sapiente e mai scontato della lingua italiana che qui invece manca completamente. L'impatto sonoro c'è tutto, anzi forse si è pure arricchito, ma il testo mi sembra assolutamente scontato e pieno di facili luoghi comuni. E non è cosa da poco per un gruppo che ha puntato tutto sulla potenza della parola e ne ha fatto la parte focale della propria proposta musicale.
Il concetto pregnante della canzone è il seguente: sarebbe bello non essere costretti a lavorare per arrivare alla fine del mese. Complimenti, un concetto che non verrebbe in mente neanche ad un adolescente svogliato e privo di una qualsivoglia coscienza sociale. C'era pure bisogno di farci una canzone? In più è inutile fare gli intellettuali, dicendo che questo è un inno all'ozio nel senso latino del termine. Sono abbastanza sicuro che alzarsi a mezzogiorno non si possa intendere come otium latino, ma come ozio puro e semplice, nella più dispregiativa accezione del termine.
Il fatto è che, ad esclusione dello sfolgorante esordio, ho avuto l'impressione che Il Teatro Degli Orrori sia precipitato via via verso una rovinosa e inarrestabile parabola discendente. Ho trovato il loro secondo album, A Sangue Freddo, interessante solo in parte, mentre non sono nemmeno riuscito ad arrivare alla fine de Il Mondo Nuovo. E ora questo nuovo brano, che mi sembra completamente insipido e anonimo. Chissà, forse sono troppo esigente, forse Dell'Impero Delle Tenebre mi ha abituato a degli standard troppo elevati, difficili da replicare, se non impossibili, ma inizio a chiedermi: "Potrebbe andare peggio?" Bè sì, come dice Capovilla: "Potrebbe piovere".

domenica 13 settembre 2015

Emidio Clementi - Notturno Americano (2015)

Un gigantesco mostro che fagocita i sogni, divora le speranze, e se ne nutre. Così doveva apparire l'America ai poveri disperati che all'inizio del novecento abbandonavano la propria terra in cerca di una vita migliore. 

"E' il 1914 quando Carnevali scende dalla nave, prende la rincorsa e spicca il volo. Accarezza il sogno, ma non riesce a stringere la presa".

Così inizia la nostra storia, una storia vera, la storia di Emanuel Carnevali che all'età di 16 anni, in fuga dal padre autoritario e da una vita opprimente, giunge negli Stati Uniti per inseguire e coltivare la sua passione per la letteratura. Ma questo incipit, lapidario come una sentenza di morte, racchiude in sè l'amaro sapore della sconfitta che incombe su questa tragica vicenda umana.
New York, la città tanto sognata, con i suoi quartieri e le molteplici etnie che li abitano, con i suoi grattacieli e "con le sue case dalle piccole finestre", con il suo sfarzo e la sua povertà, mostra le sue profonde contraddizioni: "certe vie erano come le autostrade del paradiso, altre come i vicoli bui dell'inferno". La grande metropoli ha visto infrangersi i desideri di riscatto di molti disperati, per i quali il sogno americano non si è avverato. Per i poveri e per i disadattati la sopravvivenza è costantemente minacciata dalla precarietà e il lavoro diventa un'ossessione: "Il lavoro. Questa miserabile faccenda, il lavoro. L'incubo dei perseguitati. [...] Questa paura che ti afferra lo stomaco. [...] Il pensiero di perdere il lavoro mi portava alla disperazione".
L'approdo nel nuovo mondo si rivela dunque un naufragio e Carnevali si ritrova in una terra ostile, a combattere per affermarsi come scrittore e poeta: "America! Quasi riuscisti a schiacciarmi, ma io ogni tanto mi rimettevo in piedi, riprendevo a combattere". Passando da un espediente all'altro e accettando svariati lavori che non riesce a conservare, tocca con mano il degrado e la disperazione, vedendo sfumare giorno dopo giorno il suo sogno. Per sbarcare il lunario fà il lavapiatti, il garzone, il cameriere: "Oh, poveri cavalieri erranti del piacere, i camerieri. Lupi addomesticati che portano piatti di carne che non osano toccare".
Ma l'uomo non è fatto solo di istinti e di pulsioni da soddisfare, la sua vita non può ridursi alla mera sussistenza. Egli è dotato di intelletto e di volontà che lo spingono ad innalzarsi al di sopra dello stato di bestia: "C'era sempre una luce accesa che mi guidava attraverso l'America, questo paese al buio. Sapevo di essere un poeta e covavo nel mio animo la voglia di scrivere".
La delusione per il crudele rifiuto da parte della grande metropoli, porta all'inevitabile fuga ("In quegli ultimi giorni a New York avevo sofferto parossismi di pensiero [...] E fu allora che avvertì questo terribile fuoco che è dentro di me, un fuoco che tenta continuamente di sfuggirmi di mano..."), anche se ben presto la vita nella nuova città, Chicago, si rivela anonima e priva di stimoli ("...Nessuna attività febbrile trovai invece a Chicago"). Mentre i giorni si trascinano nella più assoluta disillusione, si finisce col perdere ogni contatto con la realtà, precipitando nel baratro della follia. E quando anche l'amore decide di chiuderti le porte in faccia, tutto ciò che ti resta è la rassegnazione ("Così vanno le cose e così precisamente devono andare").
L'epilogo si svolge in uno squallido locale di Milwaukee dove, per l'ultima volta, "Carnevali sperimenta la fragile consistenza di un palco". Egli decide di declamare le sue poesie di fronte ai clienti del locale. Ma quando il destino ti ha condannato ad essere un incompreso sai che, per quanto tu ti possa sforzare, sarai sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato. Di fronte all'indifferenza del pubblico nei confronti del suo componimento "Lo splendido luogo comune", Emanuel Carnevali "si rende conto di avere perso la partita, ma invece di andarsene sente il bisogno di immolarsi" e, per attirare l'attenzione degli astanti, finisce per farsi esso stesso luogo comune: "Amici ascoltatemi vi prego, per favore, ancora un momento. Non ve l'ho detto, sono italiano. Voi lo sapete cosa fanno gli italiani tutto il giorno, vero? Cantano. E io, io canterò per voi". E' la disfatta. Le grida di scherno che accompagnano le note di Funiculì Funiculà hanno l'amaro sapore della sconfitta.

martedì 8 settembre 2015

Retromania II: Slowcore

Il termine Slowcore fa riferimento all'opera di destrutturazione compiuta tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta dagli Slint (in parte con Tweez, ma soprattutto con Spiderland) ai “danni” dell'Hardcore che, sotto i colpi inferti dalla band, finì per mutare forma, perdendo gradualmente la velocità che lo aveva sempre contraddistinto, fino a dilatarsi a dismisura e ad assumere nuove forme espressive, fatte di lunghe divagazioni strumentali e soffusi movimenti dal vago sapore meditativo (preludio alla nascita del Post-Rock).
Nel frattempo i loro contemporanei Codeine, provenienti da New York, stavano portando avanti un analogo discorso, dando così un forte contributo alla formazione del genere, e ben presto il termine Slowcore, detto anche Sadcore, venne attribuito ad altre band del circuito Indie Rock americano che nelle proprie composizioni prediligevano atmosfere rarefatte, ritmi rallentati e un certo mood malinconico (Tra queste possiamo citare i Red House Painters, i Low e gli Idaho).



Codeine – Frigid Stars (1990)Con questo esordio i Codeine hanno decretato definitivamente la morte del Rock così come lo si conosceva fino ad allora. Rinunciando all'irriverenza, ai ritmi incalzanti e alla carica graffiante, il Rock con i Codeine smette di essere mero strumento di provocazione e, ripiegando su stesso, diventa veicolo di una nuova sensibilità artistica, votata all'introspezione e all'intimismo. I ritmi sono iper-rallentati, la voce è una monotona litania, mentre la musica è un lieve sottofondo scosso di tanto in tanto da improvvise distorsioni di chitarra.



Red House Painters – Down Colorful Hill (1992). Nati nel 1989 a San Francisco, i Red House Painters sono la band nella quale ha militato Mark Kozelek, noto in seguito anche per la carriera solista e per il progetto Sun Kil Moon. Il loro esordio, Down Colorful Hill, è un tributo alla mestizia e al dolore. La voce profonda di Kozelek si staglia al di sopra di un tappeto sonoro dall'incedere marziale, mentre l'atmosfera crepuscolare non concede spiragli di luce. I testi ci parlano di amori tormentati (Medicine bottle), di rapporti interpersonali problematici (Lord Kill The Pain), di lontananza (Japanese To English) o di lutti (Michael), ma non c'è rabbia ad esprimere il tormento dell'animo umano di fronte all'ineluttabilità degli eventi, soltanto una tormentata rassegnazione.



Idaho – Year After Year (1993). Originari della California, Gli Idaho sono stati attivi dal 1992 al 2011 (anno al quale risale il loro ultimo album, You Were A Dick) e Year After Year, edito nel 1993, è il loro primo disco. La voce mesta di Jeff Martin tratteggia storie di desolazione quotidiana mentre le chitarre, con la loro profusione di arpeggi, feedback e riverberi, fanno da degna cornice alla narrazione. 




Low – I Could Live In Hope (1994). I Low vengono dal Minnesota, si sono formati nel 1993, hanno pubblicato l'ultimo disco (The Invisible Way) nel 2013 e sono tuttora in attività. Il suono di questo loro debutto si presenta scarno e ridotto all'osso, con un basso ipnotico, una chitarra appena accennata e una batteria ridotta all'essenziale, mentre le voci di Alan Sparhawk e Mimi Parker sono un flebile sussurro. Il tutto contribuisce a dare all'opera una certa compattezza, tanto che i brani scivolano l'uno nell'altro fino a creare un ipnotico flusso di coscienza. Non ci sono distorsioni, cambi di tempo o sferzate improvvise e tutto procede come sospeso in una dimensione al di là del tempo e dello spazio.