martedì 8 settembre 2015

Retromania II: Slowcore

Il termine Slowcore fa riferimento all'opera di destrutturazione compiuta tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta dagli Slint (in parte con Tweez, ma soprattutto con Spiderland) ai “danni” dell'Hardcore che, sotto i colpi inferti dalla band, finì per mutare forma, perdendo gradualmente la velocità che lo aveva sempre contraddistinto, fino a dilatarsi a dismisura e ad assumere nuove forme espressive, fatte di lunghe divagazioni strumentali e soffusi movimenti dal vago sapore meditativo (preludio alla nascita del Post-Rock).
Nel frattempo i loro contemporanei Codeine, provenienti da New York, stavano portando avanti un analogo discorso, dando così un forte contributo alla formazione del genere, e ben presto il termine Slowcore, detto anche Sadcore, venne attribuito ad altre band del circuito Indie Rock americano che nelle proprie composizioni prediligevano atmosfere rarefatte, ritmi rallentati e un certo mood malinconico (Tra queste possiamo citare i Red House Painters, i Low e gli Idaho).



Codeine – Frigid Stars (1990)Con questo esordio i Codeine hanno decretato definitivamente la morte del Rock così come lo si conosceva fino ad allora. Rinunciando all'irriverenza, ai ritmi incalzanti e alla carica graffiante, il Rock con i Codeine smette di essere mero strumento di provocazione e, ripiegando su stesso, diventa veicolo di una nuova sensibilità artistica, votata all'introspezione e all'intimismo. I ritmi sono iper-rallentati, la voce è una monotona litania, mentre la musica è un lieve sottofondo scosso di tanto in tanto da improvvise distorsioni di chitarra.



Red House Painters – Down Colorful Hill (1992). Nati nel 1989 a San Francisco, i Red House Painters sono la band nella quale ha militato Mark Kozelek, noto in seguito anche per la carriera solista e per il progetto Sun Kil Moon. Il loro esordio, Down Colorful Hill, è un tributo alla mestizia e al dolore. La voce profonda di Kozelek si staglia al di sopra di un tappeto sonoro dall'incedere marziale, mentre l'atmosfera crepuscolare non concede spiragli di luce. I testi ci parlano di amori tormentati (Medicine bottle), di rapporti interpersonali problematici (Lord Kill The Pain), di lontananza (Japanese To English) o di lutti (Michael), ma non c'è rabbia ad esprimere il tormento dell'animo umano di fronte all'ineluttabilità degli eventi, soltanto una tormentata rassegnazione.



Idaho – Year After Year (1993). Originari della California, Gli Idaho sono stati attivi dal 1992 al 2011 (anno al quale risale il loro ultimo album, You Were A Dick) e Year After Year, edito nel 1993, è il loro primo disco. La voce mesta di Jeff Martin tratteggia storie di desolazione quotidiana mentre le chitarre, con la loro profusione di arpeggi, feedback e riverberi, fanno da degna cornice alla narrazione. 




Low – I Could Live In Hope (1994). I Low vengono dal Minnesota, si sono formati nel 1993, hanno pubblicato l'ultimo disco (The Invisible Way) nel 2013 e sono tuttora in attività. Il suono di questo loro debutto si presenta scarno e ridotto all'osso, con un basso ipnotico, una chitarra appena accennata e una batteria ridotta all'essenziale, mentre le voci di Alan Sparhawk e Mimi Parker sono un flebile sussurro. Il tutto contribuisce a dare all'opera una certa compattezza, tanto che i brani scivolano l'uno nell'altro fino a creare un ipnotico flusso di coscienza. Non ci sono distorsioni, cambi di tempo o sferzate improvvise e tutto procede come sospeso in una dimensione al di là del tempo e dello spazio.

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